Per quanto siano asset class aventi differente natura e, a detta di molti, addirittura antitetiche, equity e bond dovrebbero convergere verso il fatidico “fair value”.

A dirlo è stato Ed Yardeni nel lontano 1997 ed espliciti riferimenti alla bontà del modello sarebbero giunti dalla stessa Fed sotto la guida dell’allora presidente Alan Greenspan. Egli stesso citò nel medesimo anno le relazioni individuate dal modello e la sopravvalutazione del mercato azionario a fine anni ’90, ben al di sopra del “fair value”:

The 1990s have witnessed one of the great bull stock markets in American history. Whether that means an unstable bubble has developed in its wake is difficult to assess. A large number of analysts have judged the level of equity prices to be excessive, even taking into account the rise in “fair value” resulting from the acceleration of productivity and the associated long-term corporate earnings outlook. But bubbles generally are perceptible only after the fact. To spot a bubble
in advance requires a judgment that hundreds of thousands of informed investors
have it all wrong. Betting against markets is usually precarious at best.

Cosa ci dice esattamente il Fed Model?

                                   

Rendimento Treasuries 10y = Earnings/Price

E’ necessario porre a confronto il bond yield (espresso dal rendimento dei Treasuries decennali) con l’earnings yield (nient’altro che l’inverso del multiplo P/E) per potersi orientare verso l’uno o l’altro comparto; il maggiore rendimento guiderà le scelte dell’investitore.

Un divario tra i due indicatori crescente e positivo a favore dell’earnings yield porta ad un atteggiamento bullish verso asset class azionarie, in virtù del maggiore premio al rischio offerto. Allo stesso tempo, sostiene Yardeni, il maggiore rendimento azionario implica un underpricing della specifica asset class e dunque minori rischi di bolla in vista. Come si evince dal modello, la tech-bubble degli anni 2000 era stata ampiamente annunciata eppure ignorata dalle istituzioni. I segnali diretti erano i seguenti: alto rendimento obbligazionario ed elevato overpricing del comparto azionario, di gran lunga superiore al cosiddetto “fair value” (facilmente deducibile dal bond yield: 1/ rendimento treasuries 10 anni).

 

 

Fino agli anni 2000 il modello poteva contare su uno storico di correlazione diretta tra i rendimenti dei comparti azionario e obbligazionario, quasi perfettamente sostituibili tra loro. Negli anni a seguire la propensione al rischio degli investitori é stata impattata dalla componente emotiva e l’azionario è diventato l’emblema dell’investimento aggressivo (risk-on asset) mentre l’obbligazionario ha assunto la qualifica di porto sicuro (risk-off asset). Equity e bond mostrano chiari segnali di decorrelazione e sono percepiti agli antipodi dagli investitori.

I primi segnali di cedimento non tardano ad arrivare: la Grande Recessione del 2007 non viene prevista dal modello che, al contrario, spinge per un atteggiamento ulteriormente “bullish” da parte degli investitori in virtù dell’underpricing azionario, ottima opportunità di ingresso nel mercato a detta dei gestori di patrimoni. Il premio al rischio viene ampiamente ignorato dal modello, sebbene dal 2000 in poi sia stata la variabile che ha maggiormente guidato le scelte dell’investitore: l’azionario diventa asset rischioso e presenta un risk-premium più elevato.

 

 

In seguito alla grande recessione, con l’entrata in vigore del Quantitative Easing, lo scenario di mercato assume tratti completamente nuovi e non ipotizzabili nei propri modelli da alcun statistico, Yardeni compreso. Quanto sia comunque da preferire l’azionario, in un contesto di tassi a zero se non negativi, non é dato sapersi. Ad ogni modo, il forte accomodamento monetario imposto dalla FED, in un contesto di deflazione, accentua la decorrelazione tra prezzi dell’equity e prezzi dei bond: il rendimento obbligazionario in calo viene controbilanciato da prezzi dell’equity sempre più interessanti e da un maggiore premio al rischio offerto in considerazione del possibile rischio di default.

Ed eccoci arrivati all’attuale quadro di mercato gravato da guerre commerciali, manovre fiscali, allentamento degli stimoli monetari e ripartenza dell’inflazione. Oggi si riaccende l’interesse verso il tanto criticato Fed Model, da parte del mercato benchmark per eccellenza: quello statunitense.

La soglia psicologica del 3% è stata toccata dai Treasuries decennali lo scorso 23 Aprile per la prima volta a distanza di 4 anni, cosa aspettarci?

 

Lo spread di rendimento equity/bond notevole e tale da lasciarci dormire ancora sonni tranquilli ma qualche segnale di preoccupazione inizia a palesarsi sui mercati, USA in primis. La decorrelazione sembra lentamente trasformarsi in nuova correlazione dei prezzi bond/equity, con buona pace di Yardeni. Lo scenario a cui abbiamo assistito negli anni ’70, contraddistinto da un’inflazione in crescita, potrebbe riproporsi con rendimenti dei bond in ripresa e contestuale ascesa dei rendimenti azionari.

Gli algotrader hanno prontamente reagito non appena la soglia del 3% é stata toccata, ma la situazione è stata gradualmente riportata all’ordine limitando le vendite sul comparto azionario.
Gli investitori razionali, a detta degli esperti, non considerano la fase attuale come matura e tale da determinare una preferenza assoluta del comparto obbligazionario, sia per le numerose incognite circa l’entità degli ulteriori rialzi dei tassi previsti dalla Fed che per le ancora elevate prospettive di rendimento offerte dagli asset azionari. A dirla tutta, il mercato sta scommettendo sul “reflation trade” e richiede un riallineamento dei rendimenti offerti dai bond per meglio rispondere ai maggiori costi imposti dall’inflazione in ripresa; le massicce vendite sono allora da attribuirsi ai cosiddetti bond vigilantes.

Ma quanto concretamente possiamo fare affidamento su un modello che, per dirla all’inglese, confronta “apples-to-oranges” piuttosto che “apples-to-apples”? Il rendimento obbligazionario è nominale dunque risk-free, quello azionario é reale e si muove subendo gli effetti dell’inflazione.
La soluzione al problema è presto trovata: sostituendo i Titoli di Stato con il debito corporate, rappresentato dalle obbligazioni Moody’s BAA e AAA Corporate, si ha una misura equa del debito composito delle aziende dell’indice S&P 500 e diventa possibile confrontare due entità aventi medesima natura.

 

E qui lo scenario cambia, il premio al rischio associato all’azionario inizia a comprimersi (al di sotto del punto percentuale) e la correlazione sembra guidare le due componenti nel tempo, ad eccezione di poche fasi di mercato, quando gli andamenti contrastanti di bond ed equity hanno determinato vere e proprie crisi finanziarie. Il debito corporate dunque presenta numerosi punti di contatto con l’equity e non lascerebbe ipotizzare inversioni di tendenza nel breve, quanto piuttosto un percorso lineare tra le due componenti, supportato da un quadro macroeconomico più razionale e meno manovrato dalla politica monetaria della FED.

Perché non affidarsi a quest’ultima variante invece di continuare a preferire il debito risk-free, incapace di incorporare l’effetto prodotto dall’inflazione? Forse perché uno spread così ampio giustifica la propensione all’azionario che si considera per cosi dire sottovalutato. Uno spread ridotto invece farebbe suonare dei campanelli d’allarme circa il possibile overpricing dell’equity. Tanti interrogativi ancora senza senza risposta per un modello teoricamente valido ma praticamente pieno di lacune più che note ai “big” del settore, un po’ meno agli investitori “retail” che affidano gran parte delle proprie scelte tattiche al gap di rendimento tra azionario ed obbligazionario governativo. L’errata previsione fatta dal modello nel 2007 è già stata rimossa dalla memoria dei più, e oggi come allora il modello considera sottovalutato l’azionario; solo il tempo potrà dirci se il 2018 sarà il decimo anno consecutivo bullish per l’azionario o, come in passato, le troppe conferme non saranno altro che il preludio di una nuova recessione.

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