Studiare all’università è ormai diventata una scelta popolare. Sono i dati a dimostrarlo: il 67% dei diplomati, l’80% dei liceali e addirittura il 90% di chi ha almeno un genitore laureato in famiglia intraprendono un percorso universitario.

Se chiedessimo ai diplomati che sono parte di quel 67% il perché della loro scelta, probabilmente qualcuno sottolineerebbe la sua volontà di approfondire la propria conoscenza in un ambito di suo interesse o di vivere delle importanti esperienze di crescita personale. C’è un aspetto, tuttavia, che in pochi trascurano: la speranza in un salario più elevato.

D’altra parte, bisogna essere chiari: dal punto di vista economico, l’università è un investimento enorme. Si affrontano costi finanziari diretti attraverso il pagamento delle rette, ma soprattutto si affronta un elevato ‘opportunity cost’, rinunciando ai potenziali guadagni che deriverebbero dall’impiego del tempo dedicato allo studio nel mondo del lavoro. Come in ogni investimento, ci si aspetta una buona remunerazione in futuro. Tuttavia, possiamo veramente valutare l’università come un investimento redditizio?

Secondo un recente report di JobPricing, tenendo conto delle uscite (costi delle rette e opportunity cost) e delle entrate (ovvero i salari percepiti una volta laureati), si può stimare il tempo in cui un laureato mediamente ripaga il suo investimento di tempo e denaro. I primi in classifica in Italia sono gli studenti del Politecnico di Milano che ripagano l’investimento universitario in circa 13 anni.

È quest’ultimo dato che dovrebbe suscitare stupore: ci si laurea a 24 anni e, fino ai 37 (nella migliore delle ipotesi), tutti i ricavi percepiti non hanno che ripagato l’investimento universitario. In altre parole, un laureato del Politecnico di Milano, solo quando compie 37 anni, è riuscito a guadagnare tanto quanto un suo coetaneo non laureato (che lavora da più tempo). Il gap viene colmato ancora più tardi in altre università che ricoprono posizioni più basse della classifica: chi si è laureato a Cagliari recupera i coetanei non laureati a 46 anni e chi si laurea all’università Bicocca di Milano a 40 anni.

Per esprimerlo in termini più numerici, un diplomato (considerando un salario medio di circa 25.000€/anno) nei 18 anni che hanno seguito il suo diploma (ovvero il periodo di tempo tra i 19 e i 37 anni) ha generato 450.000€. Invece, un laureato (considerando un salario medio di 33.000€/anno che cresce a 38.000€/anno dopo i 35 anni) nella stessa fascia di tempo (ovvero tra i 19 e i 37 anni) ha generato 440.000€.

Tutto appare poco rassicurante, specialmente se si considera che i numeri considerati precedentemente rappresentano la situazione ottimale. D’altra parte è anche vero che il salario medio di un laureato italiano subisce un notevole incremento per coloro che operano in settori più redditizi come l’elettronica, l’elettrotecnica, la metalmeccanica, la chimica/petrolchimica, il credito o le assicurazioni. Chi, invece, non occupa posizioni in tali settori (e, di conseguenza, ha un reddito inferiore) o non proviene da università che consentono un recupero dell’investimento più rapido, dovrà colmare il divario in un periodo ancora più prolungato.

La causa dell’eccessivo rallentamento per quanto riguarda il recupero dell’investimento universitario non è difficile da intuire: in Italia c’è troppa poca differenza tra il salario di un laureato e quello di un non laureato. I dati confermano l’aspra verità: la media OCSE per quanto riguarda la differenza tra il salario di chi ha un’educazione terziaria e di chi si è fermato ad un diploma di scuola secondaria superiore è del 57% ma in Italia si riduce al 39%. Per la fascia di età tra i 25 e i 34 anni la differenza salariale si riduce addirittura ad un mero 19%. Di conseguenza, il dubbio non può che sorgere spontaneo: ne vale davvero la pena, economicamente parlando, di sacrificare 5 anni della propria vita per avere un salario così poco superiore?

Il discorso cambia nettamente se si intraprende un percorso professionale all’estero. In paesi come la Germania, USA o Portogallo, la differenza tra il salario di un laureato e quello di un non laureato cresce notevolmente (rispettivamente il 62%, 71% e 70% in più). Questo i giovani italiani lo sanno bene: sono 74 mila i laureati che, negli ultimi 10 anni, si sono spostati all’estero per lavorare. D’altra parte, come scrive il Sole 24 Ore “complessivamente, i laureati di secondo livello trasferitisi all’estero percepiscono, a un anno dal titolo, 1.963 euro mensili netti, +41,8% rispetto ai 1.384 euro che incasserebbero in Italia. Più passa il tempo più la forbice si allarga tant’è che, a cinque anni dalla laurea, i nostri concittadini all’estero incassano in media 2.352 euro (+47,1% rispetto ai 1.599 euro medi italiani).”

Certamente, il valore dell’università si manifesta nel lungo (anzi, lunghissimo) periodo, quando, in una fase avanzata della carriera, il salario di un laureato aumenta in modo significativamente più rapido rispetto a quello di un non laureato. Difatti, nell’arco dell’intera vita lavorativa (dai 24 ai 64 anni), un laureato italiano accumula un guadagno complessivo del 76% in più rispetto a un non laureato. I benefici derivanti dalla laurea non si esauriscono qui: una maggiore formazione implica una più ampia gamma di opportunità lavorative e una maggiore probabilità di trovare impiego. Si tratta anche di lavori di qualità, poiché le occupazioni più stimolanti spesso richiedono una preparazione approfondita.

Tuttavia, quella che emerge dai dati è una dura verità: la laurea porta dei vantaggi economici solo a due categorie di studenti, quelli eccellenti e quelli che operano negli ambiti più richiesti dal mondo del lavoro. D’altra parte, se il salario medio di un laureato rispetto ad un non laureato (dunque il valore economico di una laurea) è mediocre, gli unici che ci guadagnano saranno coloro che si posizionano sopra la media.

Possiamo paragonarlo a ciò che avviene per le aziende, la cui redditività dipende, da un lato, dal settore in cui operano e, dall’altro, dalle decisioni (più o meno efficienti) che prendono. Per esempio, un’azienda che opera in un settore redditizio avrà più possibilità di ottenere un alto reddito, indipendentemente da quanto le sue decisioni di business la aiutino nel raggiungere l’obiettivo. Allo stesso modo, le aziende che operano in settori meno remunerativi hanno più probabilità di avere un basso reddito. Tuttavia, in entrambi i casi le decisioni di business hanno il potere di cambiare le sorti dell’azienda. Un facile esempio è quello di Ryanair: nonostante operi in un settore poco redditizio, come quello del trasporto aereo, è riuscita, grazie alle sue proficue decisioni, ad aggiudicarsi un importante vantaggio competitivo.

Tutto questo può essere applicato anche al mondo universitario. Un laureato STEM (ovvero in materie tecnologico-scientifiche, particolarmente ricercate nel mondo del lavoro) può permettersi un grado di eccellenza inferiore rispetto ad un laureato del campo psicologico, dell’educazione e formazione per rientrare nel suo investimento. Secondo un rapporto di AlmaLaurea del 2021, le lauree meno pagate sono quelle del campo psicologico, dell’educazione e formazione con retribuzioni che si aggirano intorno ai 1.167 euro al mese. Un altro rapporto di AlmaDiploma del 2017 specifica, invece, che i diplomati 2015 che si sono dedicati subito al lavoro (17% del totale) hanno uno stipendio di 1.028 euro mensili netti. A tre anni dal diploma lo stipendio medio netto è di 1.137 euro e a cinque anni dal diploma sale a 1.274 euro.

Ecco, per un laureato medio che opera nell’ambito psicologico, educativo e della formazione, non ci sono dubbi che l’investimento universitario sia stato pessimo dal punto di vista economico: si guadagna (con poca prospettiva di miglioramento) la stessa cifra di una persona che, non solo ha studiato di meno, ma sta anche lavorando da 5 anni in più. Il discorso cambia per un laureato eccellente dello stesso ambito che ha già accumulato esperienza lavorativa durante l’università e si è specializzato in un aspetto specifico della disciplina. Sarà difficile, ma non impossibile, per un profilo del genere aggiudicarsi delle posizioni migliori del settore e recuperare l’investimento più velocemente rispetto ai suoi colleghi.

Certo: il suo settore verosimilmente non lo remunererà mai abbastanza per i suoi sacrifici ma, lentamente, si potrebbe rientrare nell’investimento.

Un laureato STEM, invece, si può permettere un grado di eccellenza inferiore per ripagare l’investimento. Basti pensare che il primo contratto lavorativo è di circa 1600€ mensili, una cifra abbastanza superiore a quella che guadagna un diplomato. Col passare del tempo, il salario crescerà tanto o poco (questo dipenderà dall’efficacia delle decisioni prese) ma ciò che accomuna tutti i laureati STEM è che prima o poi ripagheranno l’investimento. In breve: tanto meno il settore è mediamente redditizio, tanto più occorrerà eccellere e specializzarsi per emergere.

Ecco perché, economicamente parlando, il percorso universitario (in Italia) è un buonissimo investimento solo per una percentuale minima di persone: chi, nonostante i salari medi bassi del suo settore, riesce a differenziarsi superando una grande competizione o chi ha assunto, grazie all’università, competenze particolarmente richieste dal mondo del lavoro.

Detto questo, non si può certo ridurre una scelta così importante come quella universitaria ad una mera questione economica. D’altra parte, non c’è ricchezza più grande del sentirsi veramente realizzati e come sarebbe possibile raggiungere tale obiettivo senza un percorso universitario?

Se gli individui orientassero le proprie decisioni universitarie basandosi solamente sulla dura legge della domanda e dell’offerta, vivremmo in un mondo cupo e monotono dove tutti avrebbero le stesse competenze e la stessa formazione. L’università sarebbe ridotta ad una lunga corsa preparatoria per i grigi uffici in cui ci si chiuderà dopo il conseguimento del titolo, tutti con le stesse mansioni e le stesse aspirazioni.Invece, la nostra società ha bisogno di persone con un’istruzione quanto più varia e che siano abbastanza coraggiose da assumersi il più grande rischio del nostro tempo: quello di voler seguire le proprie passioni.

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