In una settimana ci sono 168 ore. 56 le spendiamo a dormire, delle restanti 112 ne dedichiamo almeno 40 (quelle in cui abbiamo più energia a disposizione) al lavoro. Ce ne restano solo 72 per vivere o, per meglio dire, per riposarci in vista della successiva giornata lavorativa. Una realtà che chi lavora in Italia, quartultima nella classifica stilata dal sito “Remote” sui paesi europei con il miglior bilanciamento tra vita e lavoro, conosce bene. Ultimamente, persino alcune aziende sembrano aver assunto consapevolezza sul tema, a tal punto da sperimentare metodi innovativi per organizzare il lavoro che garantiscano un miglior equilibrio tra vita privata e professionale ai propri dipendenti. Uno fra tutti: la settimana corta che, partendo da pionieri come Intesa SanPaolo e Lavazza fino ai nuovi arrivati come Essilor Luxottica o Lamborghini, sta riscontrando sempre più successo. Ma cosa si cela dietro alla scelta di concedere un “work-life balance” migliore ai propri dipendenti? Quali sarebbero gli effetti di tale scelta sulla nostra economia e sulla nostra società? 

Per quanto riguarda le conseguenze economiche, possiamo ricavare delle previsioni interessanti dalla teoria del lavoratore (ovvero quel modello microeconomico che studia il compromesso ottimale, per il lavoratore, tra tempo libero e ore dedicate al lavoro). 

Consideriamo i seguenti dati: 
T: Quantità totale di tempo in ore.

N: Ore dedicate al tempo libero.

L=T-N: Ore dedicate al lavoro.

C: Consumo totale di beni o servizi

W: Salario

B: Reddito non da lavoro.

Tali variabili si trovano nel seguente rapporto fra di loro: 

PC + WN <= WT + B 

In altre parole, la spesa totale del consumatore, sommata al costo opportunità del suo tempo libero (ovvero il guadagno a cui sta rinunciando pur di godere del suo tempo libero), deve essere necessariamente inferiore o uguale al suo reddito da lavoro e non. 

Si può anche tracciare un grafico che ha C sull’asse delle ordinate e N sull’asse delle ascisse. La retta blu rappresenta quei punti in cui il lavoratore spende tutto il suo reddito.

Se la settimana corta, come sembra, diminuirà le ore di lavoro e manterrà i salari invariati, WT crescerebbe in quanto la retribuzione oraria sarebbe maggiore (i lavoratori, infatti, avrebbero lo stesso guadagno lavorando meno ore). 

Graficamente, questo significa una maggiore inclinazione della retta:

Ma quale sarebbe la reazione del lavoratore all’aumento della retribuzione oraria? Ci sono diverse opzioni: se la sua scelta si trovava sulla retta di bilancio di colore blu, potrà scegliere di consumare la stessa quantità di C ma avendo a disposizione più tempo libero N.

In alternativa, potrebbe dedicare parte del tempo libero guadagnato ad una seconda occupazione, in modo tale da aumentare il suo potere d’acquisto e consumare ancora più quantità di C. 

Infine, se la scelta del consumatore precedentemente si trovava sotto la retta di bilancio (com’è probabile che sia visto che, nella vita reale, si evita di spendere totalmente il proprio reddito), è possibile che il lavoratore sia incentivato ad aumentare i consumi, vista la disponibilità di tempo libero aggiuntiva. 

Un’intuizione simile fu quella dell’imprenditore statunitense Ford, quando il mondo del lavoro era ben diverso e le ore settimanali dedicate alla propria occupazione erano notevolmente maggiori di 40. D’altra parte, tra le innovazioni del fordismo vi era proprio la riduzione dell’orario lavorativo dei dipendenti a 8 ore giornaliere e la garanzia, allo stesso tempo, di un salario superiore rispetto ai competitor. 

Il risultato? I dipendenti avevano sia il denaro che il tempo libero necessario per permettersi le automobili che loro stessi producevano. In breve, con l’adozione della settimana corta, probabilmente, assisteremo a conseguenze simili: più tempo libero, a parità di salario, significherebbe più consumi. 

Ma se tutti riducessero il proprio orario lavorativo, come sarebbe possibile riuscire a soddisfare una domanda aggregata che addirittura crescerebbe? La settimana corta porterebbe forse all’assurdo paradosso per cui qualcuno dovrà continuare a lavorare per 40 ore a settimana (o più) per far sì che gli altri ne possano lavorare meno? 

Per fortuna, l’ultimo studio di “4 day week global” e “Autonomy” sulla settimana corta (il più rilevante condotto finora grazie alla partecipazione di 61 aziende e 2900 dipendenti) sembra escludere l’ultimo scenario. I risultati sono sorprendenti: Il 46% delle aziende partecipanti ha affermato che la produttività è stata mantenuta “all’incirca allo stesso livello”, mentre il 34% ha addirittura segnalato un “lieve” miglioramento e il 15% un aumento “significativo”. 

In breve, meno ore di lavoro non significa una riduzione della produttività. Al contrario, significa più benessere e soddisfazione tra i dipendenti. Il 71% dei partecipanti ha affermato di aver percepito meno i sintomi dello stress da lavoro; il 39% ha specificato di sentirsi meno stressati rispetto all’inizio della prova. Per quanto riguarda le richieste di giorni di malattia, la percentuale si è ridotta del 65%. Ottimi risultati anche sul bilanciamento tra vita privata e lavoro: il 60% degli impiegati, con la formula della settimana corta, ha riscontrato maggiore flessibilità nel gestire gli aspetti professionali e privati della propria vita e il 62% ha percepito risvolti positivi anche sulla vita sociale. 

Tuttavia, la settimana corta non è solo una questione di tipo economico ma non può prescindere anche da riflessioni filosofiche. 

Marx riteneva che, nel sistema economico in cui viviamo (che lui definisce “capitalistico”), non ci fosse “plusvalore” (ovvero differenza 

tra il valore del prodotto e il costo del lavoro necessario per realizzarlo) senza “pluslavoro” (ovvero le ore in più, rispetto alla loro paga, che gli operai dedicano al lavoro per dare origine al plusvalore). Nella visione del filosofo tedesco, era proprio il fatto che l’operaio dovesse contribuire, grazie alle sue ore di lavoro aggiuntive, a superare di gran lunga il break-even point dell’azienda a determinare parte della sua alienazione. Ma, se Marx

avesse potuto assistere alla settimana corta, avrebbe forse cambiato idea? Ora che il trend sembra essere quello di una riduzione dell’orario lavorativo, possiamo ritenere la sua lotta di classe anacronistica? 

La risposta di Marx sarebbe probabilmente che quello che lui definisce “pluslavoro” non sta cessando di esistere, sta semplicemente mutando. Prima, il pluslavoro dell’operaio consisteva nel trascorrere più ore in fabbrica rispetto a quelle che sarebbero bastate al proprietario per ripagare il suo salario. Per esempio, se l’imprenditore necessitava solamente di 6 ore di lavoro del suo operaio per guadagnare abbastanza soldi da permettersi il suo salario, quest’ultimo era tenuto a lavorarne 12. Erano proprio quelle 6 ore di lavoro in più a determinare (in parte) il profitto del proprietario. 

Oggi, nonostante le conquiste sindacali abbiano (sulla carta) fissato il massimo dell’orario lavorativo ad 8 ore, il miglioramento tecnologico ha fatto sì che le ore necessarie per ripagare la forza-lavoro siano diminuite. Ecco che Marx suggerirebbe che il guadagno del “capitalista” non è cambiato: sono semplicemente diminuite le ore necessarie per raggiungerlo. Di conseguenza, la settimana corta, nella visione marxista, non sarebbe altro che l’avvenuta realizzazione di un miglioramento tecnologico, non una conquista dei lavoratori. 

Altri pensatori più liberisti, invece, risponderebbero che, senza quello che Marx definisce “plusvalore”, sarebbe impossibile ottenere un miglioramento tecnologico. E come dar loro torto: se il progresso tecnologico, come ci insegna Schumpeter, si basa sulla figura dell’imprenditore che, alla ricerca di un profitto e di un possibile monopolio, si prende il rischio di lanciare una nuova tecnologia sul mercato, come sarebbe possibile innovare senza che il capitalista intraveda nel suo rischio una possibile remunerazione? Quale imprenditore investirebbe i suoi capitali su nuove tecnologie se tutta la ricchezza prodotta da queste ultime dovesse essere equamente distribuita tra i dipendenti che, al suo contrario, non hanno affrontato alcun rischio? 

Ecco che, forse, se oggi il miglioramento tecnologico permette alle aziende di concedere un orario lavorativo più leggero ai propri dipendenti è proprio perché il nostro sistema capitalistico, a differenza delle economie pianificate sperimentate da coloro che hanno tratto ispirazione (forse erroneamente) da Marx, remunera chi è disposto a rischiare e incentiva l’avanzamento tecnologico. 

Tuttavia, indipendentemente da quale delle due tesi sia più accurata, un sistema in cui gli individui non dedichino un terzo o più delle loro giornate al lavoro non sembra essere sostenibile. 

Proprio per questo, chi ha ideato la settimana corta non ha particolarmente a cuore il bilanciamento tra vita privata e lavorativa dei propri dipendenti ma ha semplicemente effettuato un calcolo di convenienza. D’altra parte, una logica aziendale di medio-lungo termine impone che tutti i soggetti che entrano in relazione con l’azienda raggiungano un buon grado di soddisfazione così da poter stringere un’alleanza duratura. Proprio per questo motivo, visto che l’avanzamento tecnologico lo consente, quali sarebbero gli svantaggi di ridurre l’orario lavorativo a parità di profitto?

Inoltre, il vantaggio competitivo dell’azienda è particolarmente evidente nel miglioramento dell’immagine e nella migliore appetibilità per quanto riguarda l’acquisizione dei migliori talenti (employer branding). D’altra parte, i lavoratori più performanti dirotteranno verso quelle aziende che garantiscono una remunerazione e delle condizioni lavorative più attraenti. E in un’organizzazione strutturata in modo organico e che punta alla flessibilità, i talenti possono rappresentare la differenza. 

In conclusione, la settimana corta è il punto di incontro perfetto tra la volontà dei dipendenti di bilanciare la propria vita privata con quella lavorativa e l’interesse delle aziende nel mantenere dei rapporti duraturi con i propri collaboratori, oltre ad una buona immagine. Dal punto di vista economico, potrebbe portare ad un aumento dei consumi e manterrà la produttività pressoché invariata. Dal punto di vista filosofico, va presa per quello che è: un piccolo cambiamento che non rivoluzionerà il rapporto tra uomini e lavoro. In fondo, più o meno un terzo delle nostre ore settimanali continueranno ad essere dedicate al sonno, un quarto al lavoro e solo la restante parte alla vita. 

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