Tra le numerose proposte della nuova amministrazione statunitense guidata da Biden ce n’è una in particolare che va oltre i confini americani: il global minimum corporate tax rate, ovvero un’aliquota minima sui profitti delle imprese uguale in tutto il mondo. L’idea, rilanciata successivamente dal G20, si pone come obiettivo dichiarato quello di contrastare la concorrenza fiscale tra i vari paesi, che cercano di rendersi più appetibili alle grandi imprese, le quali tendono a spostarsi nei territori che garantiscono loro una minore tassazione. Nonostante la concorrenza sia di solito positiva, in questo caso però provoca una corsa al ribasso: secondo la Tax Foundation, un’organizzazione non-profit che si occupa di monitorare i livelli di tassazione nel mondo, negli ultimi quarant’anni l’aliquota media sui profitti delle imprese si è quasi dimezzata, passando dal 40,11% nel 1980 al 23,85% nel 2020.

Questa corsa è spinta soprattutto dai paesi più piccoli, da quelli comunemente noti come paradisi fiscali, a quelli che navigano in zone un po’ più grigie, come Paesi Bassi e Irlanda. La ragione è che godono di un importante vantaggio comparato rispetto ai paesi più grandi: 1 euro in più di tasse in Lussemburgo, per esempio, vale relativamente di più rispetto ad 1 euro di tasse in Italia. Tuttavia, ciò ha delle conseguenze, in primo luogo un minor gettito fiscale da parte dei paesi danneggiati. Secondo l’Osservatorio dei Conti Pubblici dell’Università Cattolica, infatti, solo in Italia è stato stimato che nel 2017 vi siano stati mancati introiti per circa 7 miliardi di euro. Inoltre, soltanto le aziende più grandi e ricche possiedono le dimensioni e le risorse necessarie per poter spostare la propria sede fiscale e trarne vantaggio, creando così una sorta di concorrenza sleale nei confronti delle imprese più piccole, che invece non possono permettersi di muovere la propria sede liberamente.

Ma quali vantaggi può portare una minore concorrenza fiscale? Innanzitutto, vi è un aumento del gettito fiscale, dovuto al rientro di almeno una parte del capitale fuggito all’estero. L’altro importante vantaggio, più di lungo termine, consiste nel fatto che i governi cercherebbero di attirare le imprese non più attraverso il trattamento fiscale, ma con la fornitura di servizi, investimenti sul capitale umano e tutela della proprietà privata e intellettuale, tutte cose che possono avere ricadute positive anche sul resto della popolazione locale.

La futura misura dovrà tenere conto di tutti questi fattori. Nonostante sia stata accolta abbasta positivamente, metterla in pratica non sarà semplice, in primo luogo perché ci si dovrà districare nei sistemi fiscali di decine di paesi differenti, per far sì che la misura sia il più omogenea possibile. Inoltre, per essere davvero efficace c’è bisogno che tutti, o quasi, la approvino. Ciò non è per nulla scontato: i maggiori beneficiari della concorrenza fiscale potrebbero infatti essere restii a rinunciare ai loro vantaggi. Va infine considerato che molti paesi emergenti potrebbero considerarla un freno alle loro possibilità di sviluppo.

Sicuramente è presto per dire se e come questa proposta verrà sviluppata, tuttavia sembra andare nella giusta direzione. Solo il tempo potrà dire se si tratterà di un episodio isolato o se sarà l’inizio di un percorso più ampio di cooperazione internazionale in ambito fiscale.

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