La Cina è stata la prima nazione ad aver subito l’ondata da Coronavirus e si è vista colpire la propria economia in maniera molto decisa. Tutti gli addetti ai lavori pensavano che potesse essere proprio l’economia cinese, alla fine del periodo pandemico, a subire il danno maggiore.
Invece, dopo aver raggiunto il suo punto più basso nel febbraio del 2020 (una contrazione del 6,8%), l’economia cinese è stata la prima nazione ad entrare nella fase di ripresa, segnando nel secondo trimestre del 2020 una crescita del PIL del 3,2%.
La ripresa repentina è stata guidata da due importanti fattori: la domanda interna e la domanda esterna, data dalle esportazioni del paese.
La prima era composta dallo stimolo fiscale interno proposto dallo stato attraverso l’aumento della spesa per infrastrutture, mentre la domanda esterna comprendeva materiale sanitario essenziale per contenere il virus e materiale elettronico per lo smart working.
I dati analizzati sembrano dirci che la Cina rimane il driver principale della crescita economica globale e quelli del 2021 sembrano confermare questa ipotesi. Infatti, nel primo trimestre del 2021 il Pil ha visto una crescita addirittura del 18,3% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente.
A rendere ancora più interessante la politica economica dello stato cinese ci ha pensato il nuovo piano di crescita economica reso pubblico dai leader politici cinesi nell’ottobre del 2020. La teoria alla base del piano viene chiamata teoria della “doppia circolazione”, una interna al paese e una esterna.
Questo concetto promuove un ruolo sempre più importante della domanda interna per la crescita del paese e allo stesso tempo non esclude del tutto il commercio internazionale, non cercando quindi una situazione di totale autarchia ma provando ad attrarre investimenti e tecnologia dall’estero. La Cina vuole cercare una più forte indipendenza a livello di tecnologia per coprirsi dal rischio di incertezza di eventi futuri esterni, rendendola meno vulnerabile al ciclo economico.
Siccome l’aumento della domanda cinese deve avvenire grazie alla produzione interna, essa non può essere soddisfatta dalle importazioni dall’estero. Il 2020 e il 2021 potrebbero non essere significativi per il commercio internazionale data la pandemia per Coronavirus, ma l’importazione della Cina dall’Europa ha registrato un calo drammatico, mentre le esportazioni hanno continuato a crescere. Questo dato potrebbe indicare che, nonostante la Cina sia un punto di crescita da poter sfruttare, difficilmente i paesi occidentali potranno goderne.
Sebbene la Cina sembri solida e la sua crescita duratura nel lungo periodo, esistono elementi di fragilità che è bene analizzare per poter avere un quadro più completo della situazione del paese.
Per quanto riguarda la fragilità più visibile e in gran parte causata dall’emergenza coronavirus, è fondamentale sapere che Pechino, secondo quanto riporta il Fondo Monetario Internazionale, rimane esposto a rischi finanziari quali il rischio di credito fronteggiato dalle banche, il cui credito al settore non finanziario è aumentato del 11,9% nel primo semestre del 2020, come conseguenza del deterioramento della qualità degli attivi dovuto alla contrazione dei profitti aziendali e all’incremento della disoccupazione.
L’aumento del credito è dovuto inoltre dal cosiddetto “Debt overhang”. Il balzo in alto del debito è la conseguenza di un debito aggregato superiore al 290% del PIL, aumentato di 15 punti percentuali nel primo trimestre del 2020 e di 8 punti nel secondo trimestre.
Esistono poi diversi fattori, magari meno appariscenti, ma che negli ultimi decenni hanno caratterizzato l’economia cinese in modo negativo.
Il primo riguarda un argomento che sta tornando di moda nell’ultimo periodo: la produttività del paese.
L’economia cinese dal 1978 è cresciuta del 10% annuo per quarant’anni e tra i fattori che hanno contribuito ad una tale crescita ci sono i miglioramenti di produttività (TFP) all’interno dei settori e i guadagni dalla riallocazione delle risorse tra settori e gruppi di proprietà.
Tuttavia negli ultimi anni, secondo quanto analizzato dalla Banca Mondiale, Pechino sta subendo un rallentamento sotto questo punto di vista. Anche se la crescita rallentata della produttività dipende molto dal declino della produttività globale, in Cina è stata più netta rispetto alle altre realtà.
Una seconda fragilità riguarda il calo della fertilità negli ultimi vent’anni e il conseguente invecchiamento della popolazione.
Come è noto, una delle determinanti più importanti della crescita di un paese riguarda il fattore sociodemografico. Un indicatore fondamentale è l’indice di dipendenza strutturale del paese, cioè la percentuale di popolazione attiva, o in età lavorativa, rispetto a quella in età non lavorativa, che si attestava attorno al 42% nel 2020.
La Cina ha un’età pensionabile bassa, pari a 60 anni per gli uomini e 50 per le donne, e questo è un potenziale problema quando, come in questo periodo, la popolazione subisce un invecchiamento. Questo fattore viene amplificato dalla cosiddetta politica del figlio unico, introdotta nel 1979 e abrogata nel 2016. Il rapporto tra la popolazione in età lavorativa (20-59 anni) e i pensionati (60 anni e oltre) sarà più che dimezzato in un periodo di 20 anni: le stime indicano che la Cina passerà da quasi cinque lavoratori per ogni persona anziana nel 2010 a solo due nel 2030.
Il governo cinese ha ignorato questo problema per anni e solo ora cerca di porvi rimedio. Due sono le riforme importanti sotto questo punto di vista: la revoca del figlio unico, e la conseguente concessione del secondo figlio, e il progressivo allungamento dell’età pensionabile.
Nonostante la crescita forse da record del post pandemia, la Cina ha dei problemi interni non poco significativi che dovrà affrontare nei prossimi anni.
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