Negli ultimi anni si sono sviluppati mercati alternativi alle borse regolamentate, spesso di proprietà di grandi intermediari finanziari come le banche d’affari. In USA vengono definiti Alternative Trading System (ATS) mentre in Europa Multilateral Trading Facility (MTF). Tra questi molti prendono il nome di dark pools[1] cioè piattaforme elettroniche utilizzate da investitori istituzionali per scambi di importo molto elevato e totalmente anonimi.

Ma perché un investitore istituzionale sceglie di effettuare operazioni su queste piattaforme?

Occorre, in primo luogo, considerare che alcuni operatori hanno interesse a non far conoscere al mercato le loro strategie di investimento. In realtà, il grande vantaggio che viene sfruttato consiste nel minimizzare il cosiddetto market impact, determinante soprattutto per scambi di titoli poco liquidi. Questo fenomeno equivale al costo implicito a carico di un’impresa, cioè un costo che si è verificato ma non è inizialmente riflesso sulla spesa diretta. In pratica, ogni volta che un trader esegue un ordine di acquisto o di vendita superiore alla media di mercato, muove il prezzo in suo sfavore. Questo non accade nei dark pools essendo piattaforme private non accessibili agli investitori retail, in cui non si sa quanto si compravende e chi lo sta facendo. Secondo la disciplina comunitaria un mercato regolamentato è un mercato che tra i requisiti richiede l’obbligo di trasparenza. Ciò che si evince però, è che nei dark pools ci si trova in un contesto di totale assenza di quest’ultima. La mancanza di trasparenza resta il rischio più grande da considerare in quanto capace di influenzare la liquidità e quindi i prezzi dei mercati regolamentati, con la normale conseguenza di rendere più costosi i titoli in essi scambiati. Le «piscine oscure» in momenti di grande stress sui listini possono contribuire a generare confusione. Tuttavia sappiamo che questo fenomeno non genera di per sé il rischio di defaultma sicuramente lo accentua.

L’utilizzo dei dark pools è divenuto cospicuo con l’aumento dell’High Frequency Trading (HFT) ovvero del trading ad alta frequenza. Questa è una modalità che si serve di strumenti dotati di una potente tecnologia guidata da algoritmi matematici e che interviene sui mercati finanziari al fine di mettere in atto negoziazioni di breve durata. Il problema principale di questo sistema risiede nel potenziale aumento della volatilità dei titoli che vengono negoziati, dal momento che dietro l’attività di trading non siede un gestore, ma un algoritmo, che compra e vende in automatico sotto certe condizioni. Con il termine «flash crash» si individua il famoso episodio che ha coinvolto l’indice Dow Jones, della Borsa di New York, tra le 14:42 e le 15:07 ora locale del 6 maggio 2010. In quell’occasione i sistemi di trading, facendo partire una serie di ordini automatici, determinarono il crollo (9%) del mercato statunitense[2].

In tempi più recenti e con l’obiettivo di proteggere l’integrità del processo di formazione dei prezzi, le autorità europee hanno introdotto attraverso la direttiva MiFID II (2014/65/EU)[3] nuovi limiti alle contrattazioni «dark». A partire dal 3 gennaio 2018, infatti, le negoziazioni avvengono solo per il 4% del totale degli scambi del singolo titolo, in un periodo di 12 mesi. Inoltre, è possibile negoziare ciascun titolo fino ad un limite pari all’8% del volume totale. La mancata osservanza di tali presupposti porta ad un divieto di scambio del titolo nei sei mesi successivi alla violazione, sia da parte singolo dark pool che ha violato il cap, che da parte di tutti gli altri.

Da questa logica è possibile desumere che i grandi investitori utilizzano queste piattaforme per sfruttare una serie di vantaggi e di condizioni che, nel caso in cui fossero diverse, porterebbe loro a non considerare il trade o a farlo in maniera disallineata rispetto ai loro interessi. Come normale conseguenza di quanto appena affermato, l’introduzione di regole stringenti da parte delle autorità comporta un sostanziale aumento dei costi di negoziazione, rendendo più svantaggioso per gli investitori istituzionali utilizzare i c.d. «mercati oscuri». Il risultato è sicuramente una riduzione sensibile degli scambi, nonché della liquidità presente nell’intero mercato. Ad oggi, le stime sugli scambi azionari in Europa dimostrano che le negoziazioni avvengono principalmente su piattaforme regolamentate (83%), mentre una quota molto più ridotta (17%) ha luogo su mercati alternativi[4].

 

[1] Teoria dell’intermediazione finanziaria di Paolo Gualtieri

[2] https://www.investopedia.com/terms/d/dark-pool.asp

[3] https://www.morningstar.it/it/news/182018/video-mifid-ii-e-i-limiti-alle-dark-pool.aspx

[4] https://www.bloomberg.com/europe

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