È ormai da poco più di un mese che l’esecutivo guidato da Mario Draghi è entrato ufficialmente in carica. L’ex presidente della BCE, subentrato ad inizio febbraio a Giuseppe Conte, si è trovato di fronte a numerose questioni aperte. Al netto dell’enorme e stringente problema inerente alla gestione della pandemia e della stesura del Recovery Plan, infatti, urgono provvedimenti su diverse materie: dalla fibra unica, ad Autostrade, per arrivare, nuovamente, al dossier Alitalia: un’atavica questione irrisolta del nostro paese. La storica compagnia di bandiera è oramai nota alle cronache per un ultimo ventennio in cui i vari governi si sono spesi per provarla a rilanciare, finendo solamente per sperperare un enorme mole di denaro pubblico.
La sua nascita risale al lontano 1946, per mano dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), ideata con la finalità di garantire all’Italia una flotta che fosse in grado di collegare una nazione alle prese con la nascita del boom economico. Negli anni a venire, infatti, mentre sul fronte del trasporto su gomma si stava costruendo la celebre “Autostrada del Sole”, da quello aereo, Alitalia era già in grado di collegare gran parte della Penisola con il volo Torino-Milano-Catania. In poco tempo inaugurò i primi voli internazionali, ed in seguito, intercontinentali, come quello che da Milano giungeva a Buenos Aires. Per tutto il corso del Novecento, quindi, divenne il simbolo dell’ammodernamento dell’Italia, rimanendo presente in modo stabile, servendo i principali snodi cittadini e rappresentando, a tutti gli effetti, il terzo player europeo dietro solamente a British Airways e Lufthansa.
Dal punto di vista della governance, la compagnia si è trovata per gran parte della propria storia interamente in mano statale, sotto l’influenza, in primis, della stessa IRI, per poi giungere presso il Ministero delle Partecipazioni Statali e poi quello delle Finanze. Nel 1985 si registrò la prima apertura del capitale a privati, con lo stato che, tuttavia, deteneva una partecipazione dell’85 per cento, per poi diminuire progressivamente sotto i colpi della profonda privatizzazione che colpì il comparto statale ad inizio anni ’90. è a partire da quel decennio che lo scenario classico del settore del trasporto aereo comincia a cambiare i propri connotati, passando da pochi nomi e d’importanza strategica a livello nazionale, all’affermazione di svariate compagnie low cost. Per questo motivo, e per cercare di dare ossigeno ai conti aziendali, che all’epoca facevano segnare numeri preoccupanti, il governo Prodi spinse per la quotazione in borsa: era il 1996, e, per la prima volta nella propria storia, Alitalia, con la vendita del 37 per cento, stava per diventare una società privata.
Purtroppo, la quotazione si rivelò il primo errore strategico da parte dell’azionista di maggioranza pubblico, che non essendo riuscito a sistemare i pericolanti conti, optò per affidarsi ad un partner straniero come l’olandese Klm. La trattativa durò qualche anno, e, in un primo momento pareva avviata verso un accordo che avrebbe dovuto prevedere 40 milioni di passeggeri e una flotta di quasi 300 aerei. Anche questa volta, tuttavia, il tutto non andò in porto, dal momento che il negoziato si arenò sulla questione di spostare l’hub principale da Fiumicino a Malpensa. Intanto, però, ad inizio millennio, il settore dovette scontrarsi con due fattori assai rilevanti: da un lato, il ruolo sempre più prevalente di players come Ryanair o Easyjet, che arrivarono a guadagnare molte quote di mercato, mentre, dall’altro ci fu la paralisi post 11 settembre 2001. Così, toccò nuovamente a Romano Prodi cercare di trovare una soluzione ad un’azienda che stava via via gravando sempre di più sulle casse dello stato. Si decise di andare verso la cessione di un ulteriore 39 per cento, prima attraverso una gara che finì deserta, poi giungendo nuovamente alla trattativa con Klm, che nel frattempo si era fusa con Air France. Neanche il tempo di entrare nel vivo della contrattazione, che il governo cadde e subentrò Silvio Berlusconi, fortemente intenzionato a non far sì che la compagnia finisse in mano straniera. Perciò, siamo nel 2008, mise insieme la celebre cordata de “I Capitani Coraggiosi”, ovvero la CAI (Compagnia Aerea italiana), che vedeva la presenza di nomi noti dell’imprenditoria nostrana come Roberto Colaninno, e le famiglie Riva, Ligresti, Benetton, Marcegaglia e Caltagirone. L’operazione consistette in totale nell’acquisto della good company per 300 milioni ed i restanti 2 miliardi di bad company rimasero in seno allo stato. In seguito ad un duro piano di ristrutturazione che previde 2400 esuberi e il taglio del 20 per cento degli stipendi dei manager, Alitalia ritornò ad operare con ritrovato vigore.
Vigore che durò una manciata di anni, fino a che, nel 2013 issò nuovamente bandiera banca(bianca), per poi venire salvata in extremis dall’entrata nel capitale di Etihad Airways che acquistò il 49 per cento della compagnia. Tre anni più tardi, tuttavia, il copione fu sempre lo stesso, con l’azienda che si ritrovò a perdere un milione al giorno, finendo, così in amministrazione straordinaria. In sostanza, tornò ad essere gestita dallo stato, il quale, pur di non dichiararne il fallimento e mantenere l’occupazione, ha continuato a stanziare ingenti fondi. Ad oggi si può stimare una spesa complessiva, contando solo il periodo che va dal 2017 al 2019, di ben 5 miliardi di euro erogati per continuare a tenerla in vita: un calcolo che si compone di un miliardo e 300 milioni di prestiti, 350 milioni di ristori Covid, tre miliardi per capitalizzare la newco Ita, qualche centinaio di milioni per la cassa integrazione.
Il piano, che avrà intenzione di portare avanti il neo ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti, dovrà fare i conti con i paletti imposti dalla Commissione Europea, che si è detta contro ulteriori salvataggi da parte dello stato, e con l’ennesima neonata newco, ITA, da cui dovrà rinascere nuovamente la compagnia di bandiera. Il leghista ha lasciato intendere che “per volare Ita non può essere troppo pesante, se è troppo pesante non vola”, aprendo ad eventuali esuberi del personale. Quello che è certo, però, è che ha tra le mani una partita, che, ormai da più di vent’anni è ben lungi dal chiudersi.
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