Non é la prima volta che la coniazione di nuovo acronimi giunga nel momento sbagliato e forse più redditizio per investire proprio in quelle economie. Wall Street ha già toppato in passato, con gli ormai più che noti BRICs e i PIGS.
Quando nel lontano 2001 l’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill lanciò l’acronimo BRIC, per riferirsi a quelle economie (Brasile, Russia, India e Cina) che avrebbero guidato la crescita su scala globale nei decenni a venire, contrariamente alle aspettative si trattava del momento ottimale per vendere i titoli dei mercati emergenti. Analoga riflessione merita anche un’ulteriore acronimo: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). Anch’esso divenne di dominio pubblico e con accezione negativa nel 2010, quando al contrario la scommessa vincente sarebbe stata quella di andare “lunghi” sull’ Eurozona.
Ed eccoci arrivati all’ultima sigla, rappresentativa delle nuove economie a rischio, coniata da Morgan Stanley nel 2013 e rivista di recente. In quell’occasione si rivelò vincente esattamente la strategia opposta, nonché l’acquisto di asset appartenenti ai mercati in via di sviluppo.
Fonte: Bloomberg
Con il termine “Fragile Five” si fa riferimento a quelle economie eccessivamente dipendenti da debito estero per fare fronte alle proprie ambizioni di crescita.
La composizione originaria, rappresentata da Brasile, India, Indonesia, Sud Africa e Turchia, fu rivista nel 2016, sostituendo Brasile e India con Colombia e Messico, sulla base di un’analisi condotta su 6 fattori: bilancia dei pagamenti, indebitamento in valuta forte ($), possesso di titoli di Stato in mani estere, inflazione, differenziale tra tassi di interesse regali, rapporto tra riserva in valuta estera e debito esterno.
L’ultimo intervento, in ordine di tempo, spetta all’agenzia di rating S&P che ha associato tale sigla a Turchia, Argentina, Pakistan, Egitto e Qatar, analizzando quanto negativamente reagissero i Paesi a maggiore debito di fronte ad un innalzamento dei tassi d’interesse. Grande assente risulta il Venezuela ma per ragioni puramente interne: la forte crisi che continua a colpire il Paese dipende da fattori squisitamente interni e non riconducibili ad influenze globali. A fronte di un vero e proprio fenomeno di “recovery” delle maggiori economie tra il 2011 e il 2014, ci si è interrogati sui rischi impliciti delle economie emergenti. Nel 2013 la FED ha chiuso i rubinetti, facendo rientrare lo stimolo fiscale e rendendo il mercato domestico e quindi il $ sempre più appetibili agli investitori esteri, rassicurati da una ripresa e solidità dell’economia americana senza precedenti. L’effettiva ripresa delle economie sviluppate si è riflessa, al contrario, in modo negativo sugli assets e investimenti fatti nei mercati emergenti, che sono stati rapidamente dismessi, insieme ad un rapido deprezzamento delle valute di riferimento: real brasiliano, rupia indiana, rand sudafricano e lira turca. L’elevato deficit di bilancio e i progetti di crescita in ballo diventano sempre meno finanziabili, rallentando e aggiungendo ulteriore volatilità alle economie di riferimento. Eppure, proprio lo scorso anno, a seguito della diffusione del nuovo identificativo “Fragile Five” secondo S&P, c’era chi lo criticava duramente poiché incoerente con la qualità di fondo di tali economie.
L’ultimo paladino delle cinque fragili economie emergenti è stato proprio Goldman Sachs Asset Management, a cui si sono uniti rapidamente T. Rowe Price Group and BlackRock Inc. Le tre grandi case di gestione hanno acquistato importanti quantità di debito developing, affermando che, nonostante i molteplici rischi politici, sia il deficit fiscale che quello delle partite correnti non avrebbero subito deterioramenti preoccupanti, a differenza di quanto accaduto alle stesse in passato. Ciò non ha fatto altro che creare delle interessanti opportunità d’acquisto, come testimoniato dal grafico del Novembre 2017.
Fonte: Bloomberg
Solo lo scorso anno Samy Muaddi, gestore presso T. Rowe Price Group, sosteneva che “spesso bisogna andare incontro alle fiamme”, riferendosi alla personale fiducia nei confronti delle economie emergenti, tradottasi poi nel suo caso in un sovrappeso di debito argentino ed egiziano. Oggi, a conti fatti, ha senso parlare di una nuova era per i mercati emergenti? Senza dubbio il quadro macroeconomico è differente rispetto al passato, il cui caso emblematico resta nella mente di tutti noi il 2013.
I Paesi developing sono cambiati rapidamente e Luis Oganes, analista di JPMorgan Chase & Co., ha evidenziato proprio allo scadere dello scorso anno la sempre minore suscettibilità degli stessi ad eventuali fenomeni di taper tantrum, nonché la forte reazione dei mercati di fronte ad un improvviso irrigidimento della politica monetaria, sfociato poi in un veloce rialzo dei tassi in US.
Andando più a fondo nell’analisi, alla soglia del nono rialzo dei tassi (dal lontano Dicembre 2015) negli Stati Uniti e di fronte ad un rally inatteso del dollaro da inizio anno, come stanno reagendo le economie fragili?
Ci viene in soccorso un altro importante indicatore, che stringe il cerchio del rischio ad un Paese in particolare: la Turchia. Il Fathom’s Sovereign Fragility Index (SFI) è un indicatore composito della fragilità finanziaria del debito sovrano e ci mostra quanto difficile stia diventando la situazione per il mercato turco. Le evidenze del primo trimestre del 2018 sono a dir poco inquietanti: la crescente fragilità dei Paesi fragili, Turchia in primis, ci riporta all’anno 1994 e al periodo successivo all’irrigidimento della politica monetaria della FED, quando i capitali iniziano a rientrare negli States e innescarono ondate di crisi del debito sovrano senza precedenti tra le economie emergenti. L’indicatore è un aggregato di rischio default, rischio inflazionistico, e spread tra rendimento decennale dei titoli di Stato e tassi di riferimento delle Banche Centrali di ciascuna economia.
Il punteggio varia da 0 a 10:
- valori inferiori all’unità indicano una sicurezza di fondo del debito sovrano considerato;
- valori superiori a 3 indicano un’insicurezza fondamentale dello stesso.
Fonte: Thomson Reuters Datastrean / Fathom Consulting
Insomma oggi, a distanza di 4 anni dalla significativa performance delle valute associate agli originari “Fragile Five” e ribattezzate ai tempi“High Five”, lo scenario cambia nuovamente e a meritarsi la copertina sono i due Paesi peggiori: Turchia e Argentina. Egitto, Pakistan e Qatar dovranno attendere il loro momento per un testa a testa con quelle due economie così diverse tra loro ma accomunate da una variabile assolutamente non trascurabile: il debito. E non parliamo di spiccioli quando ci riferiamo ai circa 1.500 mld di dollari che i paesi emergenti debitori dovranno pagare nel 2019 e nelle stesse proporzioni anche nel 2020.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale
I due paesi si trovano a fare i conti con un eccesso di indebitamento estero che ha reso inevitabile per l’economia argentina l’intervento del Fondo Monetario Internazionale, attraverso una prima tranche di aiuti per 50 mld di $. In Turchia la Banca Centrale ha confermato 2 mesi fa che la politica monetaria rimarrà restrittiva finché l’outlook inflazionistico non mostrerà un significativo miglioramento, spingendo i tassi di interesse fino al 24%. E mentre le loro valute di riferimento perdono oltre il 40% da inizio anno, l’uragano partito sui mercati punta a mietere altre vittime illustri: Sudafrica, India e Indonesia sono attese al varco. Questa volta le cinque economie rischiano di meritare l’appellativo di “fragili” ancora per parecchio tempo.
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