Finalmente è finita. È quello che avranno pensato i leader dei 27 paesi dell’Unione Europea quando, all’alba del quinto giorno di negoziazioni, estenuanti trattative e veti incrociati, alle 5.30 di martedì mattina hanno raggiunto un accordo. Non è una novità che le riunioni del Consiglio Europeo si protraggano per giornate intere, specie nei momenti più concitati della storia dell’Unione Europea. Era successo a Maastricht, dove furono necessari due giorni prima di arrivare alla firma del trattato che sanciva la nascita dell’Unione stessa, successe a Nizza, quando ci vollero quattro giorni prima di approvare il testo del trattato che sarebbe stato firmato solo qualche mese dopo, ma mai si era andati oltre questo limite.
A ben vedere, in effetti, la settimana appena trascorsa ha rappresentato uno snodo cruciale per la sopravvivenza del progetto europeo.
Materia della contesa, il famigerato Recovery Plan, il piano di aiuti che il Consiglio Europeo ha deciso di varare per sostenere l’economia europea, duramente provata da una crisi economica senza precedenti, perlomeno dal dopoguerra a oggi, e i cui strascichi ci terranno compagnia per lungo tempo, in assenza di una risposta adeguata.
La proposta inizialmente avanzata dall’Italia e dal cosiddetto “fronte del sud”, capitanato dalla Francia e sostenuto dalla Germania, prevedeva la creazione di un Recovery fund che raccogliesse le risorse mediante un’emissione obbligazionaria garantita dal Bilancio dell’Unione Europea, i cui fondi sarebbero stati, poi, assegnati equamente ai vari paesi europei, senza nessun vincolo di restituzione. Dei prestiti a fondo perduto, insomma, ai quali si sono opposti fermamente i “falchi del nord”, capitanati dall’Olanda e dal suo leader rigorista Rutte. Questi hanno ribadito l’assoluta volontà di concedere dei fondi per la ripresa ai paesi più duramente colpiti dalla pandemia, ma solo sotto forma di prestiti, caratterizzati da condizioni di rimborso stringenti o comunque legati alla realizzazione di riforme strutturali da parte dei destinatari.
In realtà la questione è apparsa sin da subito politica, piuttosto che tecnica o meramente numerica. Dietro i dubbi e le richieste sollevate dai “cugini del nord”, infatti, si cela una certa insofferenza nei confronti dei paesi del sud (Italia, Spagna e Grecia in testa), accusati di non avere intenzione di attuare le necessarie riforme per rilanciare l’economia e, anzi, di voler sfruttare l’occasione per realizzare le ennesime misure assistenzialiste o elettorali. A inasprire la vicenda sono state, inoltre, le rinnovate critiche da parte del fronte del sud al fenomeno del dumping fiscale, posto in essere dai falchi del nord (Olanda in primis) e che rappresenta una seria minaccia per la libera concorrenza nell’allocazione dei capitali all’interno dell’UE. Il tutto condito dalla necessità di “tenere il punto” in politica interna da parte del premier olandese Rutte, in vista delle elezioni legislative del prossimo anno.
Alla luce di queste divergenze difficilmente conciliabili, ciò che emerge dalle negoziazioni di questi giorni è un risultato che convince a metà, e a poco servono i proclami degli sherpa nostrani sul grande risultato ottenuto.
Al di là dei 1.100 miliardi di euro previsti dal budget dell’Unione Europea per i prossimi sette anni, la notizia più rilevante è lo stanziamento di 750 miliardi di euro esclusivamente per fronteggiare la crisi economica causata dalla pandemia. Di questi, però, circa 390 rappresentano finanziamenti a fondo perduto, distribuiti sulla base di criteri quali il tasso di disoccupazione e il reddito pro-capite, mentre i restanti 360 sono prestiti concessi ai vari paesi a condizioni di tasso particolarmente vantaggiose. Per quanto riguarda l’Italia, l’ammontare complessivo delle risorse senza obbligo di rimborso equivale a 82 miliardi di euro, mentre la quota che dovrà essere successivamente rimborsata (sebbene con scadenze lunghissime e tassi molto bassi) è pari a 127 miliardi.
Sicuramente i passi avanti sono stati notevoli.
La creazione del Recovery fund (o Next Generation UE), finanziato mediante l’emissione di Eurobond sul mercato garantiti dal bilancio UE, per raccogliere i 750 miliardi da destinare alla ripresa, va nella direzione giusta, rompendo, di fatto, il tabù riguardante la politica fiscale in ambito UE e spianando il cammino alla creazione di un’entità europea capace di indebitarsi, redistribuire le risorse e introdurre nuove imposte.
Ma ogni vittoria ha il suo prezzo.
In cambio dei finanziamenti a fondo perduto, i paesi frugali (Austria in primis) hanno ottenuto un incremento dei loro rebates, ossia degli sconti sul loro contributo annuale al bilancio dell’Unione Europea.
È prevista, inoltre, una sorta di meccanismo d’emergenza.
Sebbene sia escluso che i singoli governi possano esercitare un potere di veto riguardo agli esborsi nei confronti di un altro paese, per poter godere dei fondi stanziati ogni paese deve presentare un “piano di riforma e di resilienza” che deve essere in linea con le indicazioni che la Commissione europea annualmente formula nei confronti dello stesso e alla quale spetta l’approvazione.
Dopo di che, su proposta della commissione il piano deve essere valutato e approvato dall’Ecofin, che delibera con maggioranze qualificate. L’Ecofin potrebbe quindi bloccare, di fatto, un piano nazionale di riforma e quindi l’accesso al finanziamento stesso.
Inoltre, non si vede l’ombra al momento di alcuna proposta di mutualizzazione dei debiti preesistenti dei vari paesi all’interno dell’Unione, passo, questo, veramente decisivo verso la realizzazione dell’Unione fiscale e che porterebbe a una condivisione del rischio-paese all’interno dell’UE, con conseguente omogeneizzazione dei tassi di finanziamento del debito dei paesi dell’area euro.
Un accordo luci e ombre, quindi, la cui attuazione permetterà di capirne meglio limiti e vantaggi. Fu vana gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.
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