Nell’ultimo periodo, la questione del salario minimo è tornata al centro del dibattito politico. Per comprendere quali potrebbero essere i vantaggi o gli svantaggi è necessario capire esattamente di cosa si parla quando ci si riferisce a questo concetto e come funziona ad oggi non solo in Italia, ma in tutta Europa.
L’organizzazione internazionale del lavoro definisce il salario minimo come “l’ammontare di retribuzione minima che per legge un lavoratore riceve per il lavoro prestato in un determinato arco di tempo e che non può essere in alcun modo ridotto da accordi collettivi o da contratti privati”. Il suo calcolo deve essere effettuato tenendo conto del costo della vita, ed in particolare, Eurofund ha stimato che per essere adeguato il suo importo dovrebbe essere uguale ad una percentuale fra 50% e 60% dello stipendio mediano del paese.
Il salario minimo esiste già in tutti gli stati membri dell’Unione Europea: questo è coerente con i sistemi di relazioni industriali presenti nei singoli paesi. La distinzione, però, avviene nel modo in cui questo viene determinato e nel suo ambito di applicazione: si parla, quindi, di tipologia “universale” quando è applicabile a tutti i lavoratori e “settoriale” quando è destinata a settori oppure gruppi di occupati. All’interno dell’UE sono circa 22 i paesi che aderiscono a questo calcolo; tuttavia, è nettamente prevalente il primo, e questo porta con sé la definizione del cosiddetto SML, ossia salario minimo legale.
I restanti paesi invece, tra cui l’Italia, sposano la visione del salario minimo settoriale, la cui determinazione è legata al contratto collettivo. Questo è reso possibile dal fatto che l’assenza dell’intervento pubblico è adeguatamente bilanciata dalla presenza dei sindacati e della contrattazione collettiva.
Un esempio significativo e portato ancora in oggi a sostegno della retribuzione minima, è rappresentato dalla Germania e dalla Francia. In Germania nel 2015 è stata introdotta una norma che fissa il livello del salario per via legislativa, con l’obbligo di ricalcolarlo periodicamente. Questa operazione legislativa è stata necessaria in quanto negli anni precedenti all’introduzione della norma erano arrivati ad una percentuale molto alta di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva (circa il 40%). Nel 2015 il salario è stato fissato ad 8,5€ l’ora, per poi aumentare di anno in anno, fino ad arrivare nel 2019 a 9,19€ l’ora. L’introduzione di questa soglia non ha ridotto né aumentato i livelli di disoccupazione del paese, ma ha avuto tutta una serie di conseguenze economiche molto rilevanti, in particolare nella domanda di lavoro. Uno studio di questi ultimi anni, condotto dalla University College London, ha dimostrato che tutti coloro che prima ricevevano uno stipendio al di sotto della soglia, non solo hanno visto aumentare la propria remunerazione, ma sono anche stati spinti ad intraprendere dei percorsi di crescita e posizioni meglio retribuite. Inoltre, sono diminuite di circa il 21% le ore lavorate all’interno di una settimana per coloro che invece percepiscono uno stipendio sotto la soglia.
Per quanto riguarda la Francia invece, ci troviamo davanti ad un paese che ha introdotto il salario minimo fin dagli anni ’70; questo viene ricalcolato in modo periodico per tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori a fronte di eventuali rincari di prezzo. Qui, inoltre, ci troviamo davanti ad un paese in cui ben il 90% dei lavoratori è attualmente protetto anche dai contratti collettivi.
I numerosi studi, nonché gli esempi che abbiamo dagli altri paesi dell’UE, smentiscono alcune delle grandi paure che ancora oggi ci sono in Italia: la prima è il fatto che il salario minimo possa distruggere posti di lavoro, la seconda è che la sua introduzione potrebbe mettere a repentaglio la contrattazione collettiva. Infatti, l’introduzione di un salario minimo non solo ha ridotto le diseguaglianze legate al reddito e migliorato le condizioni di migliaia di lavoratori, ma rappresenta una vera e propria opportunità per le imprese stesse: la presenza di una retribuzione minima stabilita consente un minor turnover, riducendo quindi i costi di assunzione, così da spingere le imprese non tanto a competere sulla compressione dei salari, quanto invece su fattori quali gli investimenti in tecnologia e conseguentemente in produttività.
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