Il 2021 ha rappresentato l’anno dei record nel mondo del Private Equity.
Un’incredibile cifra di più di un trilione di dollari è confluita nel settore attraverso oltre 4300 operazioni, con gli Stati Uniti ancora una volta leader indiscussi, responsabili di circa la metà dei numeri generati.
I dati più corposi sono stati registrati nell’ambito dei deals P2P “Public to Private” che segnano il passaggio di una compagnia dal mercato pubblico a quello privato. Rappresentativo in questo senso il deal che ha coinvolto l’acquisizione e il successivo delisting di McAfee da parte di una cordata di investitori, arrivato a toccare un giro d’affari da 19.4 miliardi di dollari. O ancora il buyout dell’americana Medline Industries da 34 miliardi così come la famosa vicenda fra Telecom e KKR.
La crescita dei mercati pubblici e le condizioni economiche sopra le aspettative hanno permesso di manovrare su un costo del debito vicino allo zero. Il valore generato attraverso le strategie di exit ha portato a risultati intorno al trilione di dollari. Per i gestori di Private Equity il 2021 ha rappresentato l’anno giusto per smobilizzare tutto ciò che di maturo si trovava all’interno del loro portafoglio.
I mercati privati hanno sovra performato quelli pubblici fornendo IRR superiori attraverso i settori e le aree geografiche più disparate, lungo tutto il corso dell’anno. La raccolta fondi in forte crescita ci ha segnalato come gli investitori avessero ormai colmato il loro gap conoscitivo nei confronti dei private markets, cambiando la propria forma mentis e abbracciando una prospettiva “illiquida” di lungo periodo. Le persone erano chiaramente alla ricerca della minore volatilità e del guadagno a lungo termine offerto dal Private Equity. Dati alla mano oltre il 95% dei Limited Partners affermava di essere stato soddisfatto ben oltre le aspettative.
Guardando al nostro paese si è potuto assistere ad un virtuoso aumento della raccolta arrivata a toccare quota 5.5 miliardi. Questa ha dato il via ad oltre 650 deals per un controvalore di quasi 15 miliardi di euro. Le oltre 1700 società presenti nei portafogli degli operatori valevano più di 50 miliardi di euro, prettamente concentrate al nord, con ancora una volta il settore tecnologico a farla da padrone, seguito dall’industria e dall’healthcare.
Sebbene non ci sia un modo chiaro di prevedere con accuratezza che ruolo giocheranno i profondi mutamenti economici del 2022 proveremo a farci un’idea delle sfide che attendono il settore.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la seguente spirale inflazionistica hanno portato profonde conseguenze con riguardo al potere di acquisto delle persone, alle dinamiche delle supply-chain e ai prezzi delle materie prime, elementi legati a doppio filo all’espansione dei multipli delle aziende.
La domanda sulla bocca di tutti è la seguente: data la minaccia e l’opportunità che l’inflazione rappresenta per gli investitori di Private Equity, in che modo questa influenzerà le società in portafoglio e come andranno affrontati tali rischi?
I marcati aumenti del tasso di interesse previsti come forma di contrasto all’inflazione rappresentano un serio ostacolo alla crescita dei key ratios valutativi delle società. Ogni fondo dovrà al più presto dar vita a team di lavoro focalizzati alla ricerca di tattiche e strategie mirate a proteggere il panorama dei propri Partners.
Questi dovranno evidenziare le aziende più a rischio con l’obbiettivo di rivalutarle al più presto.
Le linee di prodotto di queste società dovranno essere analizzate con cura, così come la loro catena distributiva, valutando le performance al netto della quota di mercato dell’impresa. Questo dovrà essere fatto cercando di eliminare senza esitazione tutte le componenti più rischiose e valutando eventuali add-on laddove vi sia un’importante opportunità tattica.
Sarà fondamentale riuscire a distinguere quanto dell’aumento dei ricavi sarà dovuto alla generale crescita dei prezzi e quanto invece al reale miglioramento della marginalità dell’impresa.
I gestori dovranno concentrarsi su strategie di creazione di valore sempre più sofisticate, i cui multipli saranno in grado di resistere per poi rimbalzare al termine di questa recessione.
I General Partner di oggi non dovranno correre, ogni decisione di buyout dovrà essere ponderata più attentamente di quanto fatto in precedenza e le operazioni di exit dovranno essere rimandate a momenti più propizi.
L’hot topic del momento riguarda l’accesso al mercato del debito e al suo utilizzo nelle attività di leverage buyout da parte dei fondi di Private Equity.
Si tratta essenzialmente di un problema di finanza elementare, tassi in aumento equivalgono ad un più difficile accesso a prestiti favorevoli che a loro volta si traducono in una più difficile raccolta di leverage, ma anche di equity. Di rimbalzo, infatti, sta salendo anche il cost of equity richiesto dai partner per scontare i cash flows, rallentando la capacità di generale valore attraverso questa tipologia di finanziamento.
I fondi di Private Equity saranno disposti ad utilizzare sempre meno leverage nelle loro operazioni? Potranno ancora contare sulla fiducia dei propri partner?
La relazione inversa tra prezzi e tassi rende sempre più complicate le attività di exit dirette al listing delle società o alla loro vendita tramite asset deal ma apre nuove prospettive tattiche in termini di acquisizione di realtà sottovalutate.
Il pallino del gioco sarà in mano a tutti quei fondi con in mano grosse disponibilità in termini di equity, ormai diventato una riserva strategica.
Le leve disponibili per andare alla ricerca dell’Alpha sono le più disparate, l’espansione geografica delle vendite verso quei paesi che hanno mantenuto poter d’acquisto, l’apertura di opportunità di acquisizioni lungo la supply chain ma anche il tema sostenibilità.
Ci sono ancora molte imprese che stanno girando a sconto con diversi paesi che presentano sfide uniche dal punto di vista demografico, normativo e geopolitico pronte a trasformarsi in opportunità a lungo termine. I vincitori saranno quelli capaci di aver costruito una value proposition differenziata e convincente.
Stiamo osservando fondi di Private Equity costretti a proporre offerte più basse, perdendo alcune opportunità per via dell’impossibilità di sfruttare a pieno tutto il leverage che vorrebbero.
Dati alla mano nel secondo trimestre del 2022 la raccolta di equity si è praticamente dimezzata, così come il numero di operazioni di buyout, i fondi devono affrettarsi ad aggiornare i loro modelli di valutazione alla luce delle mutate condizioni di mercato.
I Limited Partners non devono abbandonare i fondi di media dimensione spaventati da una maggior dispersione del rendimento ma anzi devono sostenere l’operato del Private Equity sul mid-market.
Tornando all’Italia alcuni “mega deal” come l’acquisizione di A.C Milan conclusa da RedBird o quella Autostrade per l’Italia da parte di Blackstone hanno saputo assorbire l’impatto negativo, per lo meno a livello statistico. Ad un occhio più attento però i volumi iniziano a dare segni di cedimento, confrontando il primo semestre sui due anni si nota infatti come il numero totale di operazioni sia in calo e come le attività di “trade sale” e IPO siano calate drasticamente.
La raccolta dimezzata e il numero di operazioni in calo trovano rifugio in investimenti su aziende dal fatturato superiore ai 50 milioni, principalmente concentrate nel settore della tecnologia
Il private equity italiano è dunque chiamato a mantenere il suo centrale ruolo di supporto all’economia reale, continuando ad investire nelle aziende italiane e ad affiancare strategicamente le società presenti nei loro portafogli.
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