Negli ultimi anni il panorama bancario italiano è stato dominato da due istituti: Intesa Sanpaolo, nato nel 2007 dalla fusione di Banca Intesa e Sanpaolo IMI, e UniCredit, che nell’era post-Covid è stato protagonista di un importante rally di borsa che ha portato il titolo a raddoppiare il proprio valore.
I dati parlano chiaro: Intesa presenta un totale della raccolta diretta che si attesta a 555 miliardi di euro, di cui la maggioranza è costituita da conti correnti retail, ma anche obbligazioni e certificati di deposito. Per quanto riguarda il numero di sportelli si parla di un numero poco superiore ai 3000. Subito dopo si posiziona Unicredit con una raccolta pari a 412 miliardi di euro e 2378 sportelli. In terza posizione si trova Banco BPM, con una raccolta che non raggiunge neanche il 30% rispetto a quella del competitor più vicino. Seguono BPER e Monte dei Paschi di Siena.
L’oligopolio dei due principali gruppi italiani ha spesso portato il grande pubblico a invocare la creazione di un terzo polo, con la speranza di interrompere il dominio che ha caratterizzato l’esperienza bancaria degli ultimi anni. Dopo anni di speculazioni, si è riacceso il dibattito grazie alla decisione del Ministero dell’Economia e delle Finanze di vendere la propria partecipazione del 64% nella banca Monte dei Paschi di Siena, acquisita nel 2017 tramite un aumento di capitale.
La storia della banca senese risale al 1472, quando venne fondata per aiutare le classi disagiate della popolazione del capoluogo toscano. Dopo decenni di grande espansione, culminata con la quotazione alla Borsa di Milano, negli anni 2000 la banca ha subito le conseguenze di scelte imprenditoriali errate e di numerosi scandali.
Una di queste è l’acquisizione della banca Antonveneta avvenuta nel novembre del 2007 per una cifra monstre pari a 9 miliardi di euro. L’istituto acquisito aveva prodotto nell’anno precedente un utile di 408 milioni a fronte di ricavi per 2 miliardi (con un rapporto price to earnings superiore a 22, decisamente sopra la media del settore). Tra il 2005 e il 2007 la banca era stata rilevata prima dall’olandese Abn Amro e successivamente dal gruppo spagnolo Santander. Al momento dell’acquisizione da parte di MPS la banca aveva una valutazione di 6,6 miliardi, ovvero una cifra ben diversa da quella effettivamente pagata. Degna di nota è la circostanza che l’operazione è stata guidata per conto di Merril Lynch da Andrea Orcel, oggi CEO di UniCredit.
Negli anni precedenti all’acquisizione, MPS aveva iniziato ad utilizzare prodotti finanziari derivati per coprire le perdite e modificare a proprio favore il risultato economico, come accertato dalle indagini svolte dalla magistratura e dai successivi procedimenti giudiziari. Tra i derivati utilizzati quelli che hanno avuto una maggiore rilevanza mediatica sono stati “Santorini” ed “Alexandria”, che hanno portato a perdite complessive per 750 milioni di euro nel corso degli anni. Altri problemi per la banca sono sorti nel periodo della crisi del debito italiano nel 2011 a causa dell’eccessiva esposizione ai titoli di stato italiani che, offerti come garanzia nelle operazioni con i derivati, persero gran parte del loro valore.
Malgrado i numerosi tentativi di riorganizzazione, con provvedimenti drastici come forte tagli del personale, chiusura di filiali, cessione di asset e tagli di sponsorizzazioni sportive, la situazione stentava a migliorare. Nel 2017 il Ministero dell’Economia e delle Finanza decide di intervenire con un investimento di 5,4 miliardi di euro, sottoscrivendo l’aumento di capitale e diventando primo azionista con una quota di maggioranza assoluta.
Oggi l’amministratore delegato Luigi Lovaglio (ex Credito Valtellinese) sta cercando di riportare l’istituto sulla strada della redditività, anche grazie ai consistenti rialzi dei tassi da parte della BCE e alla liquidazione di 4000 dipendenti di fine novembre 2022. I primi nove mesi dell’anno si sono chiusi con un utile netto di 929 milioni di euro, a fronte di una perdita di 334 milioni nello stesso intervallo dell’anno precedente. Proseguendo su questa strada, l’istituto dovrebbe riuscire a raggiungere l’obiettivo di un utile vicino al miliardo, come dichiarato dall’AD. Il mercato, dopo le vicissitudini degli anni passati, mostra un modesto interesse nei confronti del titolo con una buona crescita annuale che ha portato il prezzo a 3,26 € (+ 65% YoY). Nonostante ciò, la quotazione è ben lontana da quella degli anni pre-crisi.
L’attuale governo Meloni, con Giancarlo Giorgetti nominato ministro dell’Economia, ha annunciato di volersi liberare entro la fine del 2024 della partecipazione che ha per anni assorbito risorse pubbliche. Il ministro in varie occasioni ha dichiarato che “non c’è una data” di dismissione e “usciremo quando è opportuno uscire, realizzando anche un obiettivo di sistemazione del sistema bancario italiano e quando il prezzo e le condizioni di mercato ci sembrano congrue”; in particolare, obiettivo del Ministero “è la piena valorizzazione della partecipazione, da realizzarsi nell’interesse della Banca e di tutti i suoi azionisti, tenuto conto del miglioramento della redditività e dell’accresciuta patrimonializzazione”.
Grazie agli ottimi risultati reddituali il Mef il 20 novembre, con una rapidità inaspettata, ha annunciato la vendita del 25% delle quote dell’istituto. L’operazione, di grande successo, ha registrato una domanda pari a cinque volte l’ammontare inizialmente offerto, pari al 20%. La cessione è avvenuta ad un prezzo di 2,92 euro per azione (-4,9% rispetto al prezzo di borsa). Con questa mossa al Tesoro rimane una partecipazione pari al 39,2%. Nella nota del Ministero si legge che “L’operazione rappresenta la prima fase del più ampio processo che porterà il Mef a valorizzare pienamente la banca, nell’interesse della stessa e di tutti gli stakeholder, nel contesto del solido quadro patrimoniale e reddituale che caratterizza l’istituto e delle sue prospettive di ulteriore sviluppo”. Inoltre, il Tesoro si è impegnato a non vendere più azioni per i prossimi 90 giorni senza l’autorizzazione dei propri advisor finanziari.
A questo punto potrebbe accendersi la sfida per aggiudicarsi la partecipazione rimanente. Gli indiziati principali sono sicuramente BPM, nonostante abbia esplicitamente dichiarato la propria strategia “stand alone” e BPER, attualmente impegnata nell’integrazione con banca Carige, di recente acquisita. Difficile pensare ad un interesse di Intesa Sanpaolo, che dopo l’OPA su Ubi ricopre una posizione soddisfacente, e di Unicredit, che attualmente sembra interessata principalmente ad acquisizioni oltreconfine, come dimostra l’acquisizione del 51% della banca greca AlphaLife.
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