Prima del 1789, le società europee erano divise in ceti che venivano assegnati fin dalla nascita. I figli dei nobili avrebbero eternamente mantenuto i loro privilegi e chi apparteneva al Terzo Stato avrebbe per sempre occupato l’ultimo scalino della gerarchia sociale. Con la rivoluzione francese si diffonde la speranza che “l’ancien régime”, come lo definivano in modo dispregiativo i rivoluzionari, fosse per sempre terminato. Finalmente, la mobilità sociale avrebbe permesso agli ultimi di superare i primi. Chiunque avrebbe potuto scalare i gradini della piramide sociale fino a raggiungerne il vertice.
A distanza di 235 anni, sembriamo più che mai distanti dagli ideali dei rivoluzionari francesi, specialmente se si osserva il caso del nostro paese. Secondo il rapporto del World Economic Forum (2020), l’Italia è al 34esimo posto nella classifica dei paesi con la migliore mobilità sociale. Basti pensare che il 20% della popolazione possiede il 67,6% della ricchezza e servono, secondo lo studio, 5 generazioni per passare da una famiglia a basso reddito ad una ad alto reddito.
Come riporta il Sole 24 ore (riferendosi alle dichiarazioni dei redditi del 2021), solo il 5% degli italiani ha una RAL (retribuzione annua lorda) di 55.000€ o superiore. Ma, per coloro i quali provengono da una situazione economica precaria, è veramente possibile raggiungere tale reddito grazie all’impegno accademico? Lo studio, in Italia, può realmente essere la chiave per una rivalsa sociale?
Prendiamo in esame il percorso universitario che (secondo i dati del MIUR) riceve, ogni anno, più iscrizioni fra tutti in Italia: economia. Ecco, per accedere alle posizioni lavorative più competitive (quindi meglio remunerate) in ambito economico, occorre frequentare una cosiddetta “università target”. Il motivo per cui sia così necessario provenire da certi specifici atenei è che le banche di investimento più prestigiose o le società di consulenza più ambite, dato l’elevato numero di candidature che ricevono, eseguono una prima selezione eliminando tutti i curriculum che non contengano il nome di quelle poche università europee o americane considerate degne di attenzione. Per loro si tratta di una scelta più che conveniente: da un lato, i selezionatori avranno risparmiato molto tempo e, dall’altro, avranno la garanzia di proseguire con dei candidati di qualità che hanno assunto credibilità essendosi laureati in atenei molto competitivi. In altri termini, è come se l’università da cui i candidati provengono li avesse già selezionati al posto del datore di lavoro.
C’è un problema di fondo in Italia: l’unica università internazionalmente riconosciuta in ambito economico (secondo la maggior parte delle classifiche tra cui QS ranking e Financial Times) è l’università Luigi Bocconi di Milano, che è anche (giustamente, essendo privata) la più costosa.
Vista la quasi totale assenza di borse di studio per merito e la grande competizione per ottenerne una, l’unico modo per frequentare tale università ed aggiudicarsi un vantaggio competitivo sugli altri studenti è disporre di ottime risorse economiche.
D’altra parte, le borse di studio per reddito, ovvero quelle assegnate a chi (in teoria, vista l’evasione fiscale che contraddistingue il nostro paese) non può permettersi il costo di un certo percorso universitario, sono completamente inefficaci perché non raggiungono il ceto medio (ovvero la maggior parte della popolazione). E per essere considerati parte del ceto medio, in Italia, secondo un rapporto dell’Eurispes, basta una famiglia di tre componenti che guadagni all’incirca 35.000€ lordi annui. Per dirla in altri termini, secondo il sistema fiscale italiano, se si guadagnano 1700€ al mese in tre, si è già troppo ricchi per poter ricevere aiuti finanziari.
La Bocconi non è da meno. Per una borsa di studio del 100% occorre avere un ISEE (che, ricordiamo, considera non solo il reddito ma anche i possedimenti e il numero di persone del nucleo familiare) di 25.000€. Per una borsa di studio del 60%, l’ISEE non deve superare i 50.000€. Insomma, una famiglia di tre persone che guadagna 2500€ al mese in tre, cifra con cui in una città come Milano si può giusto sopravvivere, e si concede il lusso di possedere una macchina, magari ereditata, è già considerata troppo ricca. Ecco che i benestanti potranno permettersi di pagare la retta, i meno abbienti, o i presunti tali, riceveranno gli aiuti finanziari, e la maggior parte degli studenti, quelli appartenenti alla classe media, non potranno accedere all’unica università che, in Italia, consente di essere presi in considerazione per le posizioni lavorative più competitive in ambito economico.
Certamente, per essere ammessi alla Bocconi occorre superare un test e, per ambire alle posizioni più attraenti sul mercato del lavoro, occorre superare un’enorme competizione ma l’impegno non è abbastanza senza il criterio fondamentale: il denaro.
Denaro che è altrettanto importante per poter affrontare una delle fasi più importanti nella carriera universitaria di uno studente di economia ambizioso: quella delle internship (o stage). D’altra parte, per quanto sia paradossale dirlo, l’Italia è un paese in cui si paga per lavorare. Solo chi ha una famiglia benestante alle spalle, infatti, può permettersi di trasferirsi a Milano (che ospita le sedi principali di molte aziende italiane e dove vengono indubbiamente offerti più stage) e accettare retribuzioni di 800-1000€ al mese. Ecco che la triste verità è che il merito è condizione necessaria ma non sufficiente.
Ma perché le università pubbliche, in Italia, non vengono considerate dai selezionatori delle banche o delle società di consulenza come “Target”? Una possibile spiegazione sono le basse barriere all’ingresso. Le università pubbliche non tengono minimamente conto del percorso svolto dallo studente fino al momento dell’immatricolazione all’università, a tal punto da attribuire (a differenza delle università private) una rilevanza minima al voto di maturità o alle esperienze extra curricolari dei candidati in fase di ammissione.
Tuttavia, non è così impossibile pensare ad un mondo in cui anche le università pubbliche siano “target”. Anzi, basta semplicemente muovere il mappamondo di qualche centimetro verso Nord e osservare ciò che accade in Germania. D’altra parte, come evidenziato dallo studio condotto da “Pumping Careers” (effettuato su un campione di 1090 persone) sulle università tedesche da cui si laureano la maggior parte di coloro che lavorano nelle migliori società di consulenza emerge un risultato sorprendente: al secondo e al terzo posto si trovano due università pubbliche, rispettivamente la “Technische Universität München” e la “Universität Mannheim”.
Ma come mai alcune università pubbliche tedesche riescono a fornire un “brand” così importante ai propri studenti nei colloqui di lavoro mentre quelle italiane no? Semplice: le due università sopra citate, durante il processo di selezione, richiedono un voto molto alto dell’ “Abitur” (la maturità tedesca). Le aziende, pertanto, esattamente come in Italia avviene per Bocconi, possono essere sicure della qualità degli studenti che hanno il nome di quelle università nel curriculum, nonostante siano pubbliche. Lo stesso avviene in Italia nell’ambito dell’ingegneria: i Politecnici sono pubblici ma anche target perché, guarda caso, hanno alte barriere all’ingresso (in questo caso si tratta di un test molto complicato).
Ma non è questo, forse, un sistema rigido? Come può Il voto di maturità, conseguito a 19 anni, condizionare tutta carriera futura di uno studente, che durerà oltre 40 anni? Ebbene, tali accuse sono più che fondate ma perché non pensare ad un compromesso tra il sistema italiano e quello tedesco? In primo luogo, occorrerebbe diversificare i requisiti di accesso per ogni università pubblica in modo tale che in ogni città ci sia un’università molto selettiva, che diventerebbe automaticamente “Target” e una meno selettiva. I centri di eccellenza (come la famosa “Normale di Pisa”) esistono già in Italia ma sono solo 7 e concentrati nel Nord del paese. E, soprattutto, offrono un numero di corsi molto contenuto, di conseguenza, spesso, non vengono considerate dalla maggior parte degli studenti. Bisognerebbe, semplicemente, renderle più diffuse, garantendo che i fondi pubblici vengano equamente divisi tra gli atenei “eccellenti” e “non eccellenti”. In secondo luogo, i processi di selezione non si dovrebbero basare, come in Germania, solamente sul voto di maturità ma neanche, come in Italia, solamente su un test di ingresso. Al contrario, dovrebbero essere una media fra i due con l’aggiunta di una precisa attenzione alle attività extra curricolari degli studenti e un colloquio che ne verifichi la motivazione.
Per tutti coloro i quali ritengono che anche quest’ultima soluzione porti gli studenti a troppa competizione, si prenda in considerazione la seguente provocazione: è meglio che sia il merito (visto come una media tra voto di maturità, test di ingresso, impegno in attività extra curricolari e motivazione) a definire la tua carriera futura o il tuo patrimonio? In Italia (tranne poche eccezioni) abbiamo scelto il patrimonio e siamo tra gli ultimi posti per mobilità sociale in Europa, in Germania hanno scelto il merito e sono, secondo il World Economic Forum (2020), il paese, tra quelli appartenenti al G7, con una mobilità sociale più efficace.
Per rincorrere il mito dell’istruzione universitaria accessibile a tutti (un ideale più che corretto, sia chiaro), abbiamo lasciato che le uniche a valorizzare l’eccellenza fossero le università private. E il trionfo della mediocrità culmina nella “fuga di cervelli” che, spesso, porta i giovani più ambiziosi a valutare più conveniente studiare in un’università pubblica “Target” estera rispetto che restare in Italia. D’altra parte, costa di meno vivere in Nord Europa e studiare, con rette universitarie pari a zero o quasi, alla “Stockholm School of Economics”, alla “Copenhagen Business School” o alle università tedesche sopra citate rispetto che vivere a Milano e pagare 15.000€ l’anno per un Master Bocconi.
Tuttavia, occorre precisare che la scarsa meritocrazia, seppur piuttosto diffusa in quasi tutti i settori, è meno sentita nei percorsi universitari lontani dall’ambito economico. Chi studia ingegneria ha a disposizione università target pubbliche, come i politecnici. Chi studia medicina, vista la grande domanda di professioni mediche, non ha bisogno di frequentare università particolarmente prestigiose. In fine, chi studia giurisprudenza, se ha intenzione di lavorare nel settore pubblico, non verrà discriminato a causa dell’ateneo che presenta sul CV.
In conclusione, il sistema che ho proposto (a differenza di quanto molti potrebbero pensare) non porterebbe ad una distinzione fra la “scuola dei migliori” e la “scuola dei meno meritevoli”, bensì valorizzerebbe le eccellenze che potrebbero accedere ad un’università “Target” senza pagare la retta di un’università privata o fuggire all’estero. In Italia, continuiamo ad avere paura della competizione e della meritocrazia, basti pensare a quanto sia stato percepito come scandaloso l’aggiunta del termine “Merito” al ministero dell’istruzione. Ma il mondo, fuori dalla campana di vetro chiamata università, è contraddistinto da una competizione feroce ed è ipocrita nasconderlo. Per aggiustare il mal funzionante ascensore sociale italiano, la mia proposta è quella di valorizzare il merito.
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